La genesi del più grande album della storia del rock 'n' roll merita di essere raccontata.
Ad inizio del 1972 gli Stones, perseguitati dalla polizia e dal fisco inglese, decidono di andarsene in esilio, lasciando dunque l'Inghilterra. La meta scelta è la Francia. Jagger, da bravo viveur, va a Parigi. Richards, invece, sceglie Villefranche-sur-Mer, località poco distante da Nizza: lì, affitta una sfarzosa villa denominata Nellcote.

Trovare uno studio adatto dove registrare le canzoni composte negli ultimi quattro anni, però, è impresa ardua, tanto che alla fine la band decide di mettersi al lavoro proprio a casa di Keith Richards. C'è solo un piccolo problema, o meglio, più d'uno: innanzitutto, a Nellcote c'è un continuo viavai di amici, spacciatori e semplici scrocconi che passano, si fermano qualche giorno per una vacanza gratis, e poi ripartono, lasciando spazio ai nuovi arrivati. È un party continuo. Come racconta Charlie Watts, “era il caos totale: tutti erano perennemente fatti, a partire da Keith, che non riusciva a comporre senza l'aiuto dell'eroina”. E non era l'unico. “Gli ingegneri del suono si facevano in continuazione”, spiega Jagger; “Credevano che l'eroina li aiutasse a lavorare meglio. Il che, vi assicuro, non è vero”.
Gente che va, gente che viene. Donne nude, bambini, sconosciuti, musicisti, amici dei musicisti... Droga ovunque, avanzi di regali banchetti abbandonati qua e là negli sfarzosi saloni di Nellcote, gente che dorme per terra, bottiglie di champagne e di whisky sparse ovunque...

“Lavoravamo dalle 9-10 di sera alle 6 del mattino”, ricorda Keith Richards. “L'ipotesi di suonare anche una sola nota con la luce del sole non veniva neanche presa in considerazione”.
Già, ma quali sono le conseguenze di questo selvaggio gozzovigliare, di questo bordello continuo e smodato?
Ancora una volta Charlie Watts, il saggio della band, ci dice la verità: “Invece di impiegare due ore per registrare una canzone, noi ci mettevamo due settimane. Non sapevamo mai quale casino sarebbe saltato fuori. E dipendevamo dai tempi di Keith, che all'epoca viveva solo per la droga”.
Vero, ma per Keith era una questione diversa: “Prendevo qualsiasi cosa mi aiutasse a rimanere sveglio fino a quando la canzone su cui stavo lavorando non era finita”.

Il fatto è questo: la composizione e la registrazione anarchica, la droga, le decine e decine di persone che si aggiravano per casa, l'alcol, le donne e qualche guaio con la polizia francese, non possono nulla. La Bellezza è al lavoro, e nulla può fermarla. La Bellezza intesa come divinità, che all'epoca possiede Jagger e Richards in qualsiasi cosa loro facciano, se ne frega della totale assenza di regole e di moderazione. Qualsiasi cosa scrivano quei due, si trasforma all'istante in oro. E ok, pazienza se ci vorrà il triplo del tempo per registrarla: alla fine sarà perfetta. Sporca, perversa, suadente, sublime. Perfetta.

Ritaglia dei titoli di giornale a caso perché non riesci a buttare giù un testo, e ne viene fuori un blues da antologia: “Casinò Boogie”.
Svegliati nel cuore del pomeriggio con un riff di tre note in testa e, ancora troppo ubriaco per scriverlo su carta, accendi il registratore e suona quel giro tre-quattro volte: sarà uno dei pezzi più famosi della band, immancabile in ogni concerto degli ultimi quarant'anni (“Tumbling Dice”).
Passa la notte sveglio con Mick a cazzeggiare in cerca di un'ispirazione che non c'è, e quando albeggia e stai per arrenderti ad andare a dormire, le dita si muoveranno sul manico della chitarra dando vita all'embrione di “Ventilator Blues”.
Aspetta gli altri, che tardano ad arrivare in studio, in compagnia del produttore Jimmy Miller e del sassofonista Bobby Keys: nell’arco di mezz’ora avrai “Happy” fatta, finita e registrata.

Quindi incidi tutta questa roba nella cantina di una villa, con i microfoni ambientali sparsi per il salone, la corrente che ogni tanto salta per diverse ore. E quando torna, vai a recuperare Keith, che chissà dov'è finito. Magari è morto mentre nuotava, oppure è di sopra, strafatto come una zucchina. Convinci quelle ragazze che dormono sul balcone a rivestirsi, cerca di allontanare gli avvoltoi che arrivano da ogni dove, attirati dal sapore del buon cibo, della droga e dei soldi. Cerca di tenere insieme un barlume di civiltà in questa Repubblica Anarchica degli Stones, che si è venuta a creare nel Sud della Francia.
A tutt'oggi, Richards stesso non riesce a spiegarsi come sia potuto venire alla luce questo capolavoro. Nessuno se lo spiega.

Resta il mistero, dunque, su come sia potuta accadere questa magia.
Una congiunzione astrale, forse?
L'Arte che ha preso per mano e guidato la band attraverso il quotidiano bordello, affinché realizzasse un'opera leggendaria?
Una qualche divinità si è impossessata di questi cinque tizi per dar vita agli irraggiungibili sessantasette minuti di blues, rock’n’roll, boogie e country che compongono il disco?
Oppure è stato semplicemente il Caso, aiutato dallo stato di grazia di quella che era la più grande rock-band del pianeta, a mettere insieme quei diciassette pezzi?

Non lo sapremo mai. Resta solo una certezza, su “Exile on Main Street”. Quella sintetizzata in una frase da Benicio Del Toro, al termine del documentario Stones In Exile: “Se parliamo di rock’n’roll… beh… non so cosa ci sia di meglio al mondo”.
O forse è meglio affidarsi alle parole dello stesso Richards: “Quell’album rappresenta, a tutt’oggi, la migliore rappresentazione del nostro affiatamento come musicisti. Perché la verità è che noi Stones siamo tutti piuttosto scarsi, presi singolarmente… ma messi insieme, valiamo più di altri mille”.